IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Ha emesso la seguente ordinanza. Premesso che: in data 20 settembre 2002 a questo ufficio e' pervenuto il fascicolo degli atti relativi al procedimento di conversione della pena pecuniaria aperto presso l'Ufficio di sorveglianza del Tribunale di Bologna nei confronti di Negro Flavio; la trasmissione e' avvenuta a seguito del provvedimento del magistrato di sorveglianza di Bologna del 2 settembre 2002, con il quale, investito della richiesta di conversione della pena pecuniaria inflitta a Negro Flavio, il giudice ha cosi' disposto: "visti gli artt. 237, 238, 239, 302 d.lgs 30 maggio 2002 n. 113, dichiara la propria incompetenza per materia in ordine alla pratica in epigrafe e ordina la trasmissione degli atti per la trattazione al competente Tribunale di Verona e la contestuale comunicazione alla Procura della Repubblica c/o il Tribunale di Verona"; Osserva quanto segue. 1. - L'attuale quadro normativo. La determinazione del magistrato di sorveglianza di Bologna appare effettivamente corretta alla luce delle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 113 del 30 maggio 2002, contestualmente trasfuse nel d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, atteso che gli artt. 237 e 238 del testo unico da ultimo richiamato senza alcun dubbio individuano nel giudice dell'esecuzione la competenza alla conversione delle pene pecuniarie: il primo perche' stabilisce che il pubblico ministero deve attivare "la conversione presso il giudice dell'esecuzione competente" e il secondo perche' espressamente prevede al comma 6 che "con l'ordinanza che dispone la conversione il giudice dell'esecuzione determina le modalita' delle sanzioni conseguenti in osservanza delle norme vigenti". E' evidente, dunque, che alla luce del nuovo quadro normativo competente per la conversione delle pene pecuniarie sia il giudice dell'esecuzione, che e' individuabile in forza della definizione generale di cui all'art. 665 c.p.p. 2. - La legittimita' dell'innovazione introdotta dagli art. 237 e 238 rispetto alla disciplina previgente. Posto cio' deve essere tenuto nella necessaria considerazione, per le ragioni che si esporranno di seguito, che in forza dell'art. 678 c.p.p. la conversione delle pene pecuniarie e' espressamente indicata tra le materie di competenza del magistrato di sorveglianza, conformemente a quanto gia' prevedeva anche l'art. 107 della legge n. 689/1981 (norme, per inciso, non abrogate espressamente con il presente intervento normativo, che invece ha abrogato l'art. 660 c.p.p.). A fronte di cio', diviene, quindi, necessario porsi il quesito circa la legittimita' dell'innovazione che gli art. 237 e 238 hanno introdotto, posto che il d.lgs. n. 113 del 30 maggio 2002 e il d.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002 sono testi che promanano dal Governo, il quale possiede potesta' normativa di rango primario solo negli ambiti limitati di cui agli artt. 76 e 77 della Costituzione. E la necessita' che l'intervento innovativo della competenza sia effettuato con un atto normativo di rango primario discende, in primo luogo, dal fatto che la materia era gia' regolata da una legge (la 689/81) e da atto avente forza di legge (gli art. 660 e 678 c.p.p.) e poi anche dal fatto che l'art. 25 Cost. pone una riserva di legge ad interventi che incidano sulla competenza, qual e' sicuramente anche l'attuale, il quale non solo modifica l'organo che all'interno del medesimo ufficio deve decidere la specifica questione, ma incide anche sull'individuazione dell'ufficio che territorialmente deve procedere, perche' in forza dell'art. 678 c.p.p (e dell'art. 107 della legge 689/81) la competenza e' del magistrato di sorveglianza del luogo in cui ha la residenza o il domicilio l'interessato, mentre la competenza del giudice dell'esecuzione e' raccordata all'originaria competenza sul reato, che non ha come criterio principale quello del luogo di residenza o di domicilio dell'interessato. 3. - La collocazione del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e del d.lgs. 30 maggio 2002 n. 113 nel sistema delle fonti. La verifica della natura e della collocazione del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e prima di questo del d.lgs. 30 maggio 2002 n. 113 nel sistema delle fonti e' assai complessa (a dispetto della loro origine da leggi di "semplificazione"). Per cominciare, infatti, occorre chiarire la ragione della triplicazione di fonti in cui si e' scomposto l'unitario procedimento di formazione del T.U. 115/2002 e per fare cio' occorre risalire alle origini normative da cui promana la produzione normativa che qui si dovrebbe applicare. L'art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, nella sua stesura originaria, prevedeva che in alcune materie determinate (si vedra' poi in che modo individuate) il Governo dovesse procedere ad un riordino "mediante l'emanazione di testi unici riguardanti materie e settori omogenei, comprendenti, in un unico contesto e con le opportune evidenziazioni, le disposizioni legislative e regolamentari" e allo scopo dettava una serie di criteri e principi direttivi per guidare questa attivita' di semplificazione normativa. Con l'art. 1 della legge 24 novembre 2000 n. 340 l'art. 7 in questione e' stato mutato, per la parte che ora qui interessa, attraverso la previsione che ciascun testo unico dovesse comprendere le disposizioni contenute in un decreto legislativo e in un regolamento che il Governo avrebbe dovuto emanare ai sensi dell'articolo 14 e dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, attenendosi ai criteri e principi direttivi dettati dallo stesso art. 7 legge n. 50/1999. In forza di questa modifica il legislatore ha dunque inteso rendere maggiormente evidente che l'intervento di riordino normativo rimesso all'esecutivo non implicava una mera attivita' ricognitiva, secondo lo schema dei T.U. c.d. compilativi, ma di una attivita' in qualche misura innovativa del tessuto normativo preesistente: a questo scopo, infatti, risponde la previsione che prima siano emanati un decreto legislativo ai sensi dell'art. 14 della legge n. 400 del 1980 e un regolamento dell'articolo 17, comma 2, della stessa legge e solo dopo che i due testi siano raccolti in un ulteriore T.U. emanato, in forza del comma 4 dell'art. 7 della legge n. 50 del 1999, con decreto del Presidente della Repubblica. Il decreto legislativo e', infatti, espressione dell'esercizio di una potesta' legislativa delegata. Esattamente, quindi, il fondamento del potere legislativo esercitato deve essere rinvenuto in una delega, come indicato nelle stesse premesse al d.lgs. 30 maggio 2002 n. 113 (riportate per vero integralmente anche nel d.P.R. 15/2002), che indica la fonte del potere normativo esercitato dal Governo nell'art. 76 della Costituzione, ed esattamente nella delega costituita dall'art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, come modificato dall'articolo 1, comma 6, lettere d) ed e), come pure indicato nelle stesse premesse al d.lgs. 30 maggio 2002 n. 113. Per vero, pero', parrebbe doversi concludere che tale capacita' di innovazione del sistema normativo competa unicamente al testo approvato con decreto legislativo e non al testo unico che ne e' seguito, di raccolta delle disposizioni del predetto decreto legislativo e del regolamento contestualmente adottato. Questa notazione e' indispensabile per porre un primo dato di una qualche affidabilita', nel senso che il d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e' un mero testo unico di natura c.d. "compilativa", che cioe' raccoglie le varie disposizioni che regolano la materia delle spese di giustizia e piu' precisamente raccoglie le norme del d.lgs. 30 maggio 2002 n. 113, testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia e le norme di altro provvedimento, il n. 114 adottato con d.P.R. emanato ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, che contiene le norme regolamentari relative alla medesima materia. Quel che ne consegue e' che il d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nella parte in cui contenesse disposizioni di rango legislativo contrastanti o diverse dalle disposizioni di rango legislativo preesistenti alla propria adozione andrebbe semplicemente disapplicato, nel senso che la collocazione subordinata di quel testo nel sistema delle fonti imporrebbe in ogni caso di applicare la disposizione di legge preesistente ad esso, perche' non avrebbe la forza necessaria ad abrogarle. Con l'ovvia accortezza di rilevare che per disposizioni preesistenti si devono intendere quelle del d.lgs. 30 maggio 2002 n. 113, il quale, al contrario, non puo' essere considerato un Testo unico di natura meramente compilativa, essendo stato emanato in forza di una legge delega, qual e', per quel che si e' detto, la legge n. 50 del 1999. Stando cosi' le cose e', dunque, rispetto a quest'ultimo testo che dovra' essere valutata la sua conformita' alla legge delega. 4. - Verifica circa l'attribuzione al legislatore delegato della competenza a modificare le norme in materia di conversione delle pene pecuniarie. A questo proposito due sono i profili rilevabili in relazione alla materia qui in esame, consistente nell'attribuzione al giudice dell'esecuzione della competenza a disporre la conversione delle pene pecuniarie. In primo luogo vi e' da valutare se la predetta materia rientrasse o meno nella delega. Anche a questo proposito la ricostruzione della disciplina non e' del tutto semplice, ma pare a questo giudice debba portare ai seguenti risultati. Di nuovo il punto di riferimento e' il citato art. 7 della legge n. 50/1999, come modificato dall'art. 1 legge n. 340/2000, che prevede la possibilita' per il Governo di effettuare interventi di riordino tramite la procedura che si e' sopra descritta e culminanti con l'adozione di Testi unici in relazione "alle materie elencate: a) nell'articolo 4, comma 4, e nell'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni e nelle norme che dispongono la delegificazione della materia ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400; b) nelle leggi annuali di semplificazione; c) nell'allegato 3 della presente legge; d) nell'articolo 16 delle disposizioni sulla legge in generale, in riferimento all'articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; e) nel codice civile, in riferimento all'abrogazione dell'articolo 17 del medesimo codice; f) nel codice civile, in riferimento alla soppressione del bollettino ufficiale delle societa' per azioni e a responsabilita' limitata e del bollettino ufficiale delle societa' cooperative, disposta dall'articolo 29 della legge 7 agosto 1997, n. 266; f-bis) da ogni altra disposizione che preveda la redazione dei testi unici". Questa modalita' di indicazione delle materie oggetto di delega, con rinvio ad una pluralita' di fonti esterne alla legge delega medesima, lascia ampiamente dubbiosi di una conformita' al requisito posto dall'art. 76 Cost., che vorrebbe una delega conferita "per oggetti definiti". Tanto piu' quando si rinviene nel rinvio il richiamo a norme che non contengono elenchi di materie, qual e' in particolare il richiamo sub a) a norme indicate "nell'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59.". Disposizione che, infatti, pur dopo gli interventi di modifica apportati dalla legge n. 50/1999 e n. 340/2000, lungi dal contenere un elenco di materie, fa piu' genericamente riferimento a "norme concernenti procedimenti amministrativi" che possono divenire oggetto di delegificazione a seguito di apposito provvedimento legislativo che deliberi tale delegificazione. Con la conseguenza che la lettera a) citata dovra' essere intesa come un generale richiamo alla possibilita' di adottare testi unici nelle materie gia' oggetto di delegificazione, rispetto alle quali, pero', viene meno ogni problematica relativa al rango nel sistema delle fonti. In relazione al testo normativo che ci occupa, tuttavia, la gamma di materie rispetto alle quali il Governo ha ritenuto di esercitare la delega conferita nel modo ora ricostruito e' rinvenibile (secondo quanto indicato nelle stesse premesse al d.lgs. 30 maggio 2002 n. 113) ai nn. 9, 10, 11 e 12 dell'allegato 1 alla legge n. 50/1999. Il n. 9), infatti, indica il "Procedimento di gestione e alienazione dei beni sequestrati e confiscati", seppure facendo riferimento per definirne il contenuto ai seguenti testi normativi "norme approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271; decreto del Ministro di grazia e giustizia 30 settembre 1989, n. 334; regolamento approvato con regio decreto 9 febbraio 1896, n. 25". Il n. 10) indica il "Procedimento relativo alle spese di giustizia", seppure facendo riferimento per definirne il contenuto ai seguenti testi normativi "regio decreto 23 dicembre 1865, n. 2701; regio decreto 23 dicembre 1865, n. 2700". Il n. 11) indica i "Procedimenti per l'iscrizione a ruolo e il rilascio di copie di atti in materia tributaria e in sede giurisdizionale, compresi i procedimenti in camera di consiglio, gli affari non contenziosi e le esecuzioni civili mobiliari e immobiliari", richiamando i seguenti testi "legge 8 agosto 1895, n. 556; regio decreto 9 febbraio 1896, n. 25; legge 21 febbraio 1989, n. 99; testo unico approvato con regio decreto 20 settembre 1934, n. 2011; legge 3 aprile 1979, n. 103; legge 11 maggio 1971, n. 390; decreto del Presidente della Repubblica 18 dicembre 1972, n. 1095; decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642; legge 25 aprile 1957, n. 283; legge 29 dicembre 1990, n. 405; decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641; decreto-legge 19 dicembre 1984, n. 853, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 1985, n. 17; decreto-legge 30 maggio 1988, n. 173, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 luglio 1988, n. 291". Il n. 12) indica il "Procedimento per la determinazione e la liquidazione dei compensi spettanti ad ausiliari del giudice", richiamando la "legge 8 luglio 1980, n. 319, articolo 11". A parte l'anomalia per cui nelle premesse al d.lgs. 113/2002 e al d.P.R. 115/2002 (e nella relazione) risultano richiamati solo i nn. 9, 10 e 11 dell'allegato 1 alla legge n. 50/1999, quel che e' fonte di maggiori incertezze e' il fatto che in nessuna delle disposizioni sopra indicate si rinvengono tra le materie oggetto di delega al Governo ad esempio la materia del patrocinio a spese dello Stato, pure disciplinata nel T.U. (con innovazioni anche significative) e soprattutto, per quel che qui rileva, la materia delle pene pecuniarie e della loro conversione in caso di insolvenza del condannato. Non aiuta a risolvere questo dilemma neppure la Relazione ministeriale, che nel capitolo dedicato a "fondamento giuridico e natura del testo unico" fa riferimento solo al conferimento della delega per l'emanazione di testi unici nelle materie di cui ai nn. 9-10-11 dell'allegato 1 alla legge n. 50/1999. La stessa Relazione, peraltro, offre un indizio chiarificatore nella parte in cui trattando dell'"oggetto del testo unico" la definisce nei termini seguenti: "Il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia riunisce e coordina le norme sulle spese del procedimento giurisdizionale. Oggetto del testo unico sono le norme relative alle spese in tutte le fasi che rilevano rispetto al processo. Sono disciplinate: tutte le voci di spesa; le procedure per il pagamento da parte dell'erario e dei privati; l'annotazione nei registri; la riscossione. Il testo unico riunisce e coordina anche le norme in tema di patrocinio a spese dello Stato, che si sostanziano in una diversa disciplina delle spese del procedimento. Infine, il testo unico disciplina la riscossione delle spese di mantenimento in istituto, delle pene pecuniarie, delle sanzioni amministrative pecuniarie e delle sanzioni pecuniarie processuali, che e' comune a quella delle spese processuali". Da questo passaggio se ne dovrebbe concludere che per la materia delle pene pecuniarie Testo unico sarebbe derivata dal fatto di costituire materia "comune a quella delle spese processuali" (mentre per il patrocinio a spese dello Stato, di sostanziarsi "in una diversa disciplina delle spese del procedimento"). Ora, per cominciare, sembra gia' difforme rispetto al contenuto della legge delega ritenere che la materia oggetto di devoluzione al potere esecutivo fosse da individuare sulla base della titolazione delle materie indicate nell'allegato 1 alla legge n. 50/1999 e non invece con riferimento agli specifici atti normativi indicati in quell'allegato, visto che si trattava di delegare la sola semplificazione di procedimenti, come recita esaustivamente anche il titolo del citato allegato 1 alla legge n. 50/1999. Al riguardo non appare casuale che, ad esempio, in materia di "procedimento di gestione e alienazione dei beni sequestrati e confiscati" non siano indicate tra le norme attingibili dal procedimento di semplificazione anche le disposizioni contenute nel corpo del codice di procedura penale, atteso che cio' avrebbe necessariamente inciso anche su previsioni di portata sostanziale e non solo procedimentale. Ma anche a voler dare prevalenza alla mera e generale indicazione delle titolazioni dei numeri del citato allegato, di certo non e' rispondente alla delega, che per forza di imposizione costituzionale (art. 76 Cost.) deve avere "oggetti definiti", attrarre anche materie del tutto eterogenee, com'e' sicuramente quella relativa alla disciplina delle pene pecuniarie e con riferimento soprattutto alle determinazioni delle regole processuali e degli organi giurisdizionali competenti alla loro conversione in caso di insolvenza del condannato. La comunanza tra spese di giustizia e pene pecuniarie, al piu', puo' riguardare il momento della riscossione, e certo non puo' spingersi fino ad attrarre momenti e fasi diversi che attingono a profili sostanziali, come la tematica della conversione delle pene pecuniarie in relazione alla competenza a provvedervi e al rito. Per queste ragioni, dunque, in via principale appaiono illegittimi costituzionalmente per contrarieta' all'art. 76 Cost. gli artt. da 235 a 239 del d.lgs. 113/2002, come riprodotti nel d.P.R. 115/2002 (e con analoghi effetti anche per le norme corrispondenti di questo testo), per mancanza di una valida delega a disciplinare anche la materia relativa alle sanzioni pecuniarie (e di conseguenza l'art. 299 nella parte in cui abroga l'art. 660 c.p.p.). In via subordinata appaiono illegittimi costituzionalmente gli artt. 237 e 238 del d.lgs. 113/2002, come riprodotti nel d.P.R. 115/2002 (e con analoghi effetti anche per le norme corrispondenti di questo testo), nella parte in cui attribuiscono la competenza a disporre la conversione delle pene pecuniarie al giudice dell'esecuzione, per mancanza di una valida delega a disciplinare anche la materia relativa alla disciplina delle regole processuali e degli organi giurisdizionali competenti alla conversione in caso di insolvenza del condannato al pagamento di sanzioni pecuniarie (e di conseguenza l'art. 299 nella parte in cui abroga l'art. 660 c.p.p.). 5. - Il rispetto dei criteri e principi direttivi che avrebbero dovuto guidare il legislatore delegato. Ma vi e' un ulteriore profilo che deve essere valutato. Anche a volere ritenere che la delega relativa alla materia del procedimento relativo alle spese di giustizia possa in qualche modo attrarre la disciplina delle pene pecuniarie, vi erano nella delega criteri e principi direttivi che avrebbero dovuto guidare il legislatore delegato, espressi nel ricordato art. 7 della legge n. 50/1999. Quei criteri, per vero, sembrano mostrare una natura anomala rispetto all'elaborazione di principi e criteri direttivi che intende l'art. 76 Cost., perche' se quest'ultima disposizione, come e' certo, richiede che il legislatore ordinario fissi le direttive entro cui deve muoversi il legislatore delegato nel regolare la materia delegata, operando le scelte fondamentali al riguardo, una lettura dei principi e criteri direttivi di cui all'art. 7 della legge n. 50/1999 mostra come in questo caso si tratti di tutt'altro, nel senso che, lungi dal fissare i criteri e principi (cioe' le scelte fondamentali) che debbono guidare il legislatore delegato nel disciplinare in concreto le materie delegate, sono invece indicate pressoche' unicamente regole generali per la realizzazione di una buona attivita' di normazione, che non si occupano minimamente delle singole materie delegate, lasciando, quindi, su queste ultime apparentemente del tutto libero il legislatore delegato, che tale infatti si e' ritenuto nei testi normativi in esame. Questo elemento, tuttavia, non deve condurre al convincimento che sia la stessa legge delega ad essere inficiata da una illegittimita' costituzionale per mancata definizione dei principi e criteri direttivi, perche', in realta', proprio il contenuto dei criteri e principi direttivi formulati nella legge n. 50/1999 definisce invece con estrema precisione l'ambito materiale della delega conferita all'esecutivo. A parte, infatti, le regole di buona normazione indicate alle lettere b), c), e), f) ed h) (la lettera g risulta abrogata dalla legge n. 340/2000) e a parte la lettera a), che si occupa del caso in cui intervenga una delegificazione, l'unico criterio capace di definire l'ambito entro cui deve muoversi il legislatore delegato e' quello di cui alla lettera d), la quale prevede la possibilita' di un "coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo". Questo criterio e' fondamentale perche' mostra - e conferma il contesto normativo in cui la delega e' inserita - che quest'ultima non e' una delega a riformare le diverse materie individuate (o magari addirittura quelle affini o connesse), ma e' semplicemente una delega a realizzare Testi unici delle disposizioni gia' vigenti, con la sola facolta' aggiuntiva, che attribuisce al processo normativo il rango di fonte legislativa primaria (che per l'appunto richiede una delega e che la si attui con decreti legislativi), costituito dalla possibilita' di modificare le disposizioni vigenti, ma solo per apportare le "modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa", anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo, nell'ambito di un coordinamento formale del testo. Questa precisa delimitazione dell'oggetto del potere legislativo attribuito al legislatore delegato spiega l'assenza di criteri e principi direttivi sull'oggetto delle materie delegate, come vorrebbe l'art. 76 Cost., perche' le strutture portanti che la disciplina della materia gia' possiede non possono essere modificate, mentre oggetto di modifica puo' essere solo quegli aspetti che servono a semplificare il linguaggio o a garantire coerenza logica e sistematica alla normativa. A questa precisa delimitazione il legislatore delegato non si e' assolutamente attenuto nell'elaborazione dell'intero testo normativo qui esaminato, avendo introdotto una serie innumerevoli di innovazioni radicali della disciplina vigente, con scelte inconciliabili, anche nell'impostazione di fondo, con le norme previgenti. Proprio nel caso ora all'attenzione ve ne e' uno degli esempi piu' rilevanti, atteso che oltre a non potersi certo qualificare come mero intervento di coordinamento formale del testo oppure di semplificazione del linguaggio normativo, lo spostamento della competenza a gestire il procedimento di conversione delle pene pecuniarie in capo al giudice dell'esecuzione, si vede bene come non sia neppure necessario a garantire la coerenza logica e sistematica della normativa. Ma soprattutto si puo' agevolmente percepire come esso realizzi un'inversione radicale dell'indirizzo cui il legislatore si e' orientato fin dal tempo in cui ha individuato la figura della magistratura di sorveglianza, la quale e' sempre andata acquistando maggiori competenze nella fase di gestione dell'esecuzione della pena. Inversione analoga solo a quella realizzata con la disciplina del giudice di pace, ma anche in quel caso senza che vi fosse una delega sul punto. Anche per questo aspetto, dunque, sono illegittimi costituzionalmente per contrasto con l'art. 76 Cost. gli artt. 237 e 238 del d.lgs. 113/2002, come riprodotti nel d.P.R. 115/2002 (e con analoghi effetti anche per le norme corrispondenti di questo testa) perche' contrari ai principi e criteri direttivi contenuti nella legge delega (di conseguenza l'art. 299 nella parte in cui abroga l'art. 660 c.p.p.). Va da se' che se, invece, si ritenesse la delega idonea a consentire interventi del tutto innovativi del tessuto normativo precedente ad essere illegittimo costituzionalmente per contrasto con l'art. 76 Cost. sarebbe l'art. 7 della legge n. 50/1999, nella parte in cui non detta criteri e principi direttivi idonei a definire i tratti fondamentali e le scelte rilevanti con riferimento alle specifiche materie delegate. In forza di queste considerazioni si chiede che le relative pronunce, nell'ordine logico in cui sono state esposte, siano adottate dalla Corte costituzionale apparendo non manifestamente infondati i profili di illegittimita' costituzionale di una attivita' delegata che, riassuntivamente, ha portato il legislatore delegato prima ad estendere l'ambito delle materie delegate sulla base di asserite vicinanze e poi a disattendere il fine di mero riordino che la delega prevedeva per cambiare radicalmente la disciplina della materia, compiendo scelte tecniche e organizzative di enorme rilievo in via del tutto autonoma. 6. - Il buon andamento del servizio giustizia. Da ultimo vi e' altresi' da chiedersi se siano conformi al disposto dell'art. 97, comma 1, Cost., soluzioni organizzative della struttura amministrativa della giustizia che riversino sull'organo della cognizione competenze e incombenze ulteriori e diverse da quelle di cognizione. Non pare possa essere discusso, infatti, che cumulando in capo all'organo che deve esercitare la funzione primaria della giurisdizione penale, che consiste nell'accertamento dell'esistenza di responsabilita' per la commissione di reati, anche di una varia congerie di incombenze marginali e, in ogni caso, ulteriori rispetto alla funzione primaria, si finisce con il minarne ogni possibilita' di efficienza, atteso che naturalmente il cumulo di attivita' provoca (secondo la piu' naturale regola organizzativa) sottrazione di risorse alla funzione primaria. Il tutto a fronte di un drammatico riconoscimento internazionale dell'incapacita' dell'organizzazione della giustizia italiana di far fronte all'obbligo di garantire termini ragionevoli alla durata dei processi. Un valore che oggi e' stato appositamente consolidato anche nella nostra Costituzione all'art. 111 Cost., ma il cui perseguimento effettivo puo' essere realizzato, in combinazione con quanto gia' avrebbe consentito l'art. 97 Cost., soprattutto intervenendo sull'organizzazione giudiziaria, intendendo con cio' prima di tutto proprio il piano strutturale e organizzativo, con una distribuzione delle funzioni e delle attivita' che sia tale da non sottrarre risorse all'esercizio del nucleo centrale della giurisdizione. Posto cio', se ne sono condivisibili gli assunti, non potra' non apparire contrario ad essi far convergere sull'organo preposto allo svolgimento della funzione di cognizione anche competenze propriamente dirette a gestire la fase di riscossione dei crediti pecuniari conseguenti a pene pecuniarie, come l'indagine circa l'esistenza di beni e cespiti, ma anche la gestione del momento della conversione delle pene inadempiute, soprattutto considerando che tutte queste attivita', dovendosi svolgere applicando la procedura di cui all'art. 666 c.p.p. impongono la svolgimento di apposite udienze (con impiego di risorse, tempo ed energie) alla presenza necessaria (ex art. 666, comma 4, c.p.p.) di difensore e pubblico ministero. Un difensore, fra l'altro, che ove sara' nominato d'ufficio comportera' anche un conseguente ricarico di costi per l'amministrazione della giustizia (da sottrarre ad altri usi), atteso che quest'ultimo ha diritto al pagamento da parte dello Stato ove il suo cliente sia insolvente (art. 116 del T.U. 115/2002) ed e' per definizione insolvente il soggetto cui viene convertita la pena pecuniaria. In conclusione non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale per contrarieta' al combinato disposto degli artt. 97, comma 1 e 111, comma 2, Cost., degli artt. 237 e 238 del d.lgs. 113/2002, come riprodotti nel d.P.R. 115/2002, nella parte in cui attribuiscono all'organo giudiziario cui la legge gia' attribuisce le funzioni di cognizione anche competenze non pertinenti a quella funzione e, in ogni caso, nella parte in cui non prevedono che la conversione sia disposta secondo le modalita' di cui all'art. 667, comma 4, c.p.p. 7. - La rilevanza della questione. Quanto alla rilevanza della questione per questo giudice e in questa fase deve essere messo in evidenza che se le nuove norme fossero legittime la loro applicazione imporrebbe di azionare la procedura di cui all'art. 238 provvedendo quindi a fissare udienza ex art. 666 c.p.p. per poi disporre in quella sede le predette indagini, attivita' che questo giudice non ritiene di dover compiere prima che sia accertata la legittimita' della norma che la impone, in quanto in caso contrario anche solo attivando le procedure dirette alla fissazione dell'udienza farebbe immediatamente applicazione di norme (ritenute) illegittime costituzionalmente. Laddove, invece, fosse accolto uno dei profili di illegittimita' prospettati gli sbocchi processuali conseguenti sarebbero diversi e non richiederebbero ne' la fissazione della predetta udienza ne' tanto meno altre tra quelle indicate nelle norme impugnate.